D. Mastroberardino

Un angolo tra i più incantevoli paesaggisticamente e rinominato come il balcone dell’Irpinia, questa è Nusco.

Posta ad ideale spartiacque domina le valli dei fiumi Ofanto e Calore.

Sul crinale si erge il suo castello, oramai diruto, che fa da contrappunto alla bellezza di un panorama che spazia dal massiccio del Vulture fino al Terminio e al Paternio e, poi ancora, al Taburno e al Matese, guardando verso i Monti Dauni.

In questo luogo che conserva il fascino dell’Alta Irpinia, terra remota seppur non come in passato, vive Luciano Colucci, piccolo albergatore e non solo. La sua è, soprattutto, passione che si esprime in cucina, dove la creatività si sposa con solide basi tecniche.

L’ho conosciuto qualche mese fa in occasione di un evento in cantina, la festa per i settanta anni di attività di Walter Mastroberardino. Era stato il grande “vecchio” a scegliere personalmente questo cuoco, non dunque, uno chef di qualche ristorante blasonato, ma un professionista che chiamerei di frontiera - la frontiera delle aree interne - dove il turismo è, spesso, materia di convegni e ancora troppo poco una realtà su cui investire.

In quella giornata di gennaio, mi aveva colpito l’originalità della proposta di risotto. Strano a dirsi, era arrivato in tavola, per la verità per volere del festeggiato, del riso Carnaroli, ma autenticamente interpretato da Luciano Colucci con i sapori d’Irpinia: cipolla di Montoro, Fiano di Avellino e nocciole tostate ad enfatizzare i sentori tipici del prestigioso vino usato per cucinare. Non era mancato un tocco quasi pittorico, parlo dei chicchi di melograno, frutto dai tanti significati simbolici, il cui tono di rosso scuro decorava così come il suo gusto acidulo bilanciava la dolcezza e la cremosità del risotto.

In quel di Nusco, in una domenica d’inizio primavera, in una sala ristorante, aperta solo su prenotazione, semplice ed austera negli arredi, tanti salumi e formaggi del luogo a darci il benvenuto. A seguire un trionfo di carni, variamente preparate, fino al finale con l’agnello di cui c’è anche la ricetta per chi volesse cimentarsi ai fornelli.

Diversamente l’appuntamento è il 29 maggio, a Cantine Aperte, che vedrà, per un giorno, la sala degustazione di Terredora abbigliarsi con il vestito della festa e trasformarsi in ristorante grazie a Luciano Colucci e alla squadra.

 

Cosciotto  di Agnello alle erbe di campo 

Disossare un cosciotto di agnello, di media grandezza, ben frollato, rifilarlo e uniformarne lo spessore. Marinarlo per una notte in Aglianico di Taurasi, bacche di ginepro, rosmarino, aglio, salvia e buccia di limone. Disporlo aperto su un piano con la parte esterna sotto. Asciugarlo, condirlo con sale e pepe, farcirlo di barba di finocchietto selvatico, cicoria di campo e zenzero; arrotolarlo, legandolo con spago da cucina (a mo’ di salame) e mandare al forno a 140° per  10’ a vapore o misto, successivamente per altri  20’ a 190° a calore secco, (tempi di cottura in base al peso) bagnarlo di tanto in tanto con la marinatura , controllare la cottura tenendo conto che deve risultare molto umido al cuore.

Togliere dal forno, ridurre il fondo di cottura e densificarlo con un cucchiaino di maizena, affettare il cosciotto e disporlo sul fondo di cottura che avrà nappato il piatto.

Abbinamento Taurasi Fatica Contadina Docg 2010

thanks to Luciano Colucci, Hotel Colucci Nusco

D. Mastroberardino

Era un sabato sera d’agosto e tornavo da una due giorni in una Milano decisamente torrida. La giornata, afa a parte, era stata piacevole, la mattinata cominciata ad Expo. Ero al mio quinto ingresso, ma al primo in cui ero riuscita a fare la turista. Già la sera prima, al termine della degustazione per cui era andata lì, avevo cominciato la mia scoperta dell’Esposizione Universale, avevo, infatti, avuto il privilegio di una visita guidata al padiglione Vino tutta per me. La mattina dopo, forte dei consigli ricevuti la sera prima, avevo pianificato la mia visita.
Il primo obiettivo era il decantato padiglione del Giappone. Entrata dal lato del Decumano più vicino, già alle 10:20 avevo capito che dovevo farmi una ragione che non lo avrei visitato quel giorno; c’era la coda e l’attesa era già stimata in 50 minuti. A quel punto avevo deciso di lasciar prender i programmi e di andare là dove mi portava l’istinto e perché no l’assenza di file.