D. Mastroberardino

Era un sabato sera d’agosto e tornavo da una due giorni in una Milano decisamente torrida. La giornata, afa a parte, era stata piacevole, la mattinata cominciata ad Expo. Ero al mio quinto ingresso, ma al primo in cui ero riuscita a fare la turista. Già la sera prima, al termine della degustazione per cui era andata lì, avevo cominciato la mia scoperta dell’Esposizione Universale, avevo, infatti, avuto il privilegio di una visita guidata al padiglione Vino tutta per me. La mattina dopo, forte dei consigli ricevuti la sera prima, avevo pianificato la mia visita.
Il primo obiettivo era il decantato padiglione del Giappone. Entrata dal lato del Decumano più vicino, già alle 10:20 avevo capito che dovevo farmi una ragione che non lo avrei visitato quel giorno; c’era la coda e l’attesa era già stimata in 50 minuti. A quel punto avevo deciso di lasciar prender i programmi e di andare là dove mi portava l’istinto e perché no l’assenza di file.

In quelle quattro ore, in onore del Paese del Sol Levante, mi ero dedicata, comunque, all’Oriente. Prima tappa l’Oman e con le sue rose di Akhbar, subito dopo l’Indonesia e le sue spezie, il Marocco e le sue diversità climatiche ed agricole. Nel giardino esterno, avevo sorseggiato un caldo tè alla menta perché nel deserto si combatte il caldo così. L’orologio girava e, prima della tappa finale al padiglione del Kuwait, una puntatina in Estonia e Russia.

Alle due e mezza ero in metropolitana, alla volta di un appuntamento con alcune mie amiche milanesi. Due ore di chiacchiere fra donne al fresco dell’aria condizionata e mangiando gelato e, poi, corsa in stazione per prendere un’affollata freccia che mi avrebbe riportato verso casa.

Mentre viaggiavo, mi era balenata l’idea che avrei gradito concludere la giornata mangiandomi una bella pizza napoletana, per un finale coi fiocchi di questa breve full immersion dedicata a nutrire il pianeta, energia per la vita.
Un colpo di telefono ed era organizzata la serata. L’amico che mi era venuto a prendere aveva deciso di portarmi a Portici, da Pizza Verace, locale di proprietà della sua amica Paola Cappuccio, discendente di una famiglia di pizzaioli dal 1923. Era mezzanotte passata, noi gli ultimi avventori della serata e per questo Paola aveva deciso di cenare con noi. Non mi soffermerò a parlarvi dell’antipasto: la mozzarella di bufala, i peperoncini fritti, mi concentrerò sula degustazione di pizze.
Abbiamo cominciato con una pizza provola, zeste di limone e basilico a foglie, perfetta con un calice di Greco di Tufo. Per chi come me non sapesse cosa sono le zeste, dirò che sono le scorzette di limone, tagliate scartando la parte bianca che separa la buccia dalla polpa. E’ questa, infatti, a rendere il gusto del limone amaro; usare, dunque, la scorza privata di questo strato sottostante serve a conservare la carica oleosa e i profumi del limone, senza il caratteristico gusto amaro. Nonostante una certa freschezza di gusto idonea alle serate estive, questa è una pizza ricca e complessa e necessita di un abbinamento con un vino di grande struttura e carica aromatica come è, appunto il Greco di Tufo Terredora.
La seconda pizza era preparata con zucchine fritte, provola, pepe e foglie di basilico da servire con un Fiano di Avellino, meglio se non giovane. Anche questa è una versione molto estiva, ortaggi di stagione e prodotti tipici, ma, delicata come è, con l’eleganza del fiano è perfetta. 

Per finire, visto che eravamo in tre, la terza pizza era stata quella con pomodorini del piennolo, peperoncini e bufala su cui l’abbinamento che suggerirei è un Lacryma Christi del Vesuvio Rosso, dal vellutato tannino nonché dai sentori, oltre che di frutti rossi, di peperone, quasi un rimando alla pizza, per non parlare di quei profumi di cenere che io adoro e ti avvolgono, ti immergono nelle suggestioni del terroir del Vulcano, lo stesso dei pomodorini del piennolo.

Oramai tardi, era l’ora di andare a casa, non senza ripromettermi di tornare presto a trovare Paola per saggiare qualche altra sua creazione. Quello che mi è piaciuto istintivamente di questa donna, è la sua capacità di aprirsi alle suggestioni di suoi tanti amici, come Giuseppe Marra che ha ispirato le pizze che ho mangiato quella sera, e sperimentare, senza perdere mai una certa coerenza rispetto alla tradizione della pizza verace. Non per essere campanilista, ma quando lo fai alle pendici del Vesuvio e lo fai da generazioni, il risultato è assicurato.