D. Mastroberardino

Avevo un imperativo per le sospirate vacanze.

Desideravo intraprendere la rotta che mi avrebbe portato in qualche piccola isola. Favignana e le Egadi erano in cima alle mie preferenze. In passato avevo visto un bel reportage su questo piccolo paradiso e poi perché quest’angolo di Sicilia, tra i più remoti da raggiungere, è quello a me più sconosciuto. Alcuni anni fa, in occasione di una visita veloce a Trapani, mi aveva colpito la bellezza dei luoghi. Era un sabato soleggiato di novembre e con le Donne del Vino visitammo le saline. Appena oltre la baia e, dunque, quasi a portata di mano, si scorgeva l’isoletta di Mozia, una sorta di avamposto della terra ferma verso le Egadi.

Non mi ero tanto sbagliata. Infatti, tranne l’isola di Maretimo, l’unica ad essere di origine vulcanica, Favignana e Levanzo, le altre due isole dell’arcipelago, un tempo erano parte della terraferma. Fu alla fine della glaciazione che scomparvero, sotto le acque, le parti di più basse della costa e nacquero così buona parte delle Egadi.

I colori caldi dell’autunno mi fecero desiderare di tornare in questa parte di Sicilia, che immaginavo come una pietra sfavillante nella luce estiva.

Trovata la sistemazione, pronta rapidamente la valigia per partire.

Trascorsi i primi giorni oziando, ha preso poi il sopravvento la curiosità e la voglia di scoprire l’isola di Favignana, nell’incanto del Parco Marittimo delle Egadi. Punto di partenza la villa in stile neogotico, dimora di vacanza dei Florio e dei tanti loro ospiti del Bel Mondo che la gremirono.

A dirla tutta la villa parla sommessamente della storia di questa grande famiglia siciliana che ha segnato un’epoca, ma che fantastichi animata da balli e musica, in particolare dopo la visita alla tonnara, il cuore pulsante di tante delle fortune e delle tragedie che hanno costellato i destini di questa grande dinastia imprenditoriale.

Vincenzo Florio senior fu uno dei grandi capitani dell’industria pre e post Unità d’Italia. Il famoso ritratto di Boldini della “regina” di Palermo, Donna Franca Jacona di San Giuliano, la moglie di Ignazio Florio junior, le corse automobilistiche della mitica targa Florio rappresentano alcune delle pagine più affascinanti di una storia che ha attraversato tutto l’Ottocento, gli anni della Belle époque, fino al tracollo finanziario per una fede incrollabile in attività economiche in declino.

La famiglia Florio giunta da Bagnara Calabra, dopo il disastroso terremoto del 1783 deve la sua fortuna alla drogheria aperta a Palermo: spezie e generi coloniali, ma anche sostanze coloranti e medicinali, in particolare il cortice, la corteccia di china, da cui si estraeva il chinino per la cura della malaria, malattia all’epoca assai diffusa. L’importanza di questo commercio fu tale che, in breve, il simbolo della drogheria Florio, che campeggia anche sull’arco del portone della tonnara di Favignana, fu ispirato ai poteri medicamentosi del cortice: il leone che si abbevera nell’acqua dove cresce la miracolosa pianta. Vincenzo, infatti, rimasto presto orfano, si giovò della saggia gestione degli affari dello zio Ignazio e, alla sua scomparsa, continuò a fare affari in vari settori. La cospicua eredità gli permise di spaziare in campi assai più redditizi di quelli in cui avevano lavorato i suoi, dunque traffici marittimi, fu azionista di una delle più grandi flotte mercantili in Italia, poi la produzione del vino ad uso del Madera che sarebbe divenuto il famoso Marsala Florio e le tonnare appunto.

È in questa fase che la storia di Favignana si incrocia con i destini dei Florio, che ne divennero signori.

La villa estiva, da cui comincia la mia scoperta dell’isola, si affaccia di fronte alle tonnare, quasi ideali confini dell’approdo protetto all’isola.

L’elegante palazzina fu progettata dall’architetto Damiani Almeyda, a cui si deve tutto il lavoro che ridisegnò il fronte a mare dell’isola: ampliò e modificò, infatti, anche l’intera struttura degli esistenti stabilimenti che assunsero l’imponente aspetto monumentale, che conservano ancora oggi.

E’ vero, però, che ciò che comunemente definiamo tonnare erano i luoghi dove si custodivano le attrezzature, le ancore e le barche per la mattanza e dove si lavorava il prodotto pescato per la conservazione, in altre parole visito quello è che un gioiello di archeologia industriale. Quello che mi colpisce è che questo posto racconta di una vita saldamente intrecciata a quella degli isolani che vi lavoravano e che, ivi, trovarono riscatto sociale dalla povertà e fonte di sussistenza economica. Un po’ come continua ad essere ancora oggi che questi luoghi vengono fatti visitare da guide turistiche assieme a chi, qui, vi lavorò.

Questi luoghi, oltre 32.000 mq, oggi di proprietà della Regione Sicilia, hanno visto un’imponente opera di restauro non ancora completato e sono divenuti narrazione delle tante storie che hanno solcato questi mari, a cominciare dalle grandi battaglie di epoca romana, come testimoniano i tanti reperti rinvenuti nei fondali e conservati nella sezione archeologica della tonnara. Non solo anfore, ma anche un mitico rostro.

Non pensiate sia un’esperta di navi dell’antichità, mi aveva affascinato ed incuriosito il racconto di Alberto Angela nel suo libro su Pompei in cui spiega quanto Roma dovesse ai rostri il dominio del Mediterraneo.

Anche davanti allo specchio d’acqua di quest’isola qui si combatté, nel 241 a.c., una grande battaglia della prima Guerra Punica, nella baia che oggi porta il nome di Cala Rossa a ricordare il sangue versato e che ne tinse le acque.

Ma la tonnara parla, soprattutto della pesca del tonno che, qui, affonda nella notte della preistoria, come testimoniano alcuni graffiti rinvenuti nelle grotte dell’isola di Levanzo.

La stagione della pesca è legata alla riproduzione e il percorso di migrazione dei tonni è chiamato anche il viaggio dell’amore.

I tonni arrivano, infatti, nel Mediterraneo, attraverso lo stretto di Gibilterra fra Aprile e Maggio, grossi e carichi di uova che verranno deposte lungo le coste.

La pesca fu, pertanto, un’attività importante per tante popolazioni costiere ed in Sicilia in particolare, dove le varie tonnare si distinguevano a seconda se erano montate lungo il percorso di andata, quelle del trapanese e del palermitano, come appunto quelle delle Egadi, e quelle di ritorno, come quelle del messinese e del siracusano.

Nelle tonnare siciliane e in quelle sarde, le più floride del Mediterraneo, la pesca avveniva attraverso la mattanza e l’ultima in Sicilia avvenne proprio a Favignana nel 2007.

Ad aprile i tonnaroti mettevano giù le reti, 4 – 5 km a formare le varie camere, l’ultima denominata la camera della morte. A maggio dalle tonnare partivano le barche agli ordini del Rais che conduceva la mattanza. Le chiatte accerchiavano le reti dell’ultima camera e, via via, ne venivano sollevati i lembi per far affiorare a pelo d’acqua i tonni che sarebbero stati, poi, arpionati.

Il carattere stagionale di questa pesca imponeva la conservazione del tonno. Vincenzo Florio senior intuì che fosse meglio inscatolarlo sott’olio, considerato che sembrava essere il pesce sotto sale e consumato dai pescatori nei lunghi periodi in mare a causare il diffondersi dello scorbuto. Fu quest’illuminazione a rendere le tonnare di Favignana e Formica un perfetto esempio della capacità di questo grande capitano di industria di innovare nella tradizione.

Se Vincenzo Florio senior aveva preso in affitto le tonnare dai proprietari delle isole Egadi, la famiglia Pallavicini di Genova, fu, poi, il figlio Ignazio ad acquistare, nel 1874, l’arcipelago, tonnare incluse, per 2.750.000 lire. Da allora i Florio divennero, a tutti gli effetti, i signori di Favignana, ben voluti dalla gente del posto grata per il benessere economico e sociale che crebbe in questi luoghi finché le tonnare prosperano.

Nei primi anni del secolo XIX l’attività della tonnara fu, infatti, assai redditizia, con un pescato che era intorno a sette, ottomila esemplari.

Le tragedie cominciarono ad abbattersi sulla famiglia all’inizio del nuovo secolo, prima i lutti familiari e, poi, la Grande Guerra.

La Navigazione Generale Italiana dei Florio entrò in crisi a causa della difficile situazione economica causata dal conflitto e, dunque, cominciò lenta ed inarrestabile l’erosione del patrimonio familiare, con il passaggio di mano dei tanti beni di famiglia, gioielli di Donna Franca e tonnare incluse.

E’ il crollo di un impero che sembrava, ai tempi della Belle époque, non dovesse mai sgretolarsi.